Pirandello, la casa, la famiglia.
La vita, o si vive o si scrive. Io non l’ho mai vissuta, se non scrivendola… Così Luigi Pirandello confidava all’amico Ojetti nel 1921.
La mostra appena terminata a Roma il 14 gennaio 2018 – in occasione dei 150 anni dalla nascita – si intitolava, opportunamente, “Il caso Pirandello”. E’ infatti “un caso” che di uno dei nostri maggiori scrittori, il più rappresentato, con tanto di Nobel – ma al di là del Nobel – si sa ben poco.
In effetti, lui poco ha voluto farci sapere. “Vivo a Roma quanto più posso ritirato; non esco che per poche ore soltanto sul far della sera, per fare un po’ di moto, e m’accompagno, se mi capita, con qualche amico…”, così lui, anche se, in verità, saranno continui i viaggi per seguire le rappresentazioni delle sue opere; o per seguire la giovane attrice, Marta Abba, di cui si era, disperatamente, innamorato. O saranno stati viaggi come fuga?
Si avverte la tragedia.
Da dove ha avuto inizio? Dal rapporto di sottomissione al padre, forse. Di certo il matrimonio voluto dal padre con Antonietta Portulano segna la vita sua. E dei suoi figli.
Non è bella Antonietta, ma “simpatica”. Bruna, un po’ misteriosa, un po’ triste: la madre è morta troppo presto, il padre-padrone è ben attento alla dote che la moglie aveva lasciato alla piccola. Ma Antonietta dovrà essere stata ardente nei rapporti con il marito se il figlio Fausto può affermare che quei genitori sono stati “furenti amanti”: e loro, i tre figli, sempre più “nullità”.
Noi non possiamo entrare nelle stanze di quei passionali incontri. Possiamo visitare la casa dove con la famiglia ha vissuto dal 1913 al 1918, per ritornarvi a vivere, da solo, dal 1933 al 1936. La tragedia si era ormai compiuta.
Antonietta ha avuto la prima crisi dopo la nascita di Fausto, nel 1895. Poi c’è il disastro nella miniera e la perdita del patrimonio. Le crisi di gelosia, e di violenza, si andavano aggravando e arrivavano a coinvolgere i familiari tutti: denuncerà anche un rapporto incestuoso tra la figlia e il marito. Lietta tenterà il suicidio.
Lui sapeva: scrive alla sorella Lina nel 1906 “quella donna disgraziatissima non può guarire”. Molti si sono domandati perché allora Pirandello si sia rifiutato per tanti anni di internare Antonietta. Lo farà solo (e con discussioni con i figli), dopo la diagnosi di “delirio paranoide” che la rendeva ”pericolosa per sé e per gli altri”: dal 1919 al 1959, Antonietta sarà in una clinica vicino alla casa, sempre aggredendo il marito che andava a trovarla ogni giorno.
Che si sia trattato di un suicidio nascosto?
Di certo, immergendosi nell’atmosfera della splendida casa romana, recuperando la materialità degli oggetti suoi (cappello a larghe tese, scarpe a punta, le belle copertine dei libri che Pirandello disegnava da solo), si avverte una solitudine che è dolore.
Quella sofferenza può essere stata la linfa della creatività. Chissà.
Lui non parla. Lui non scrive di sé, rifiutando di avallare qualsiasi biografia.
Però, a noi, a parlare, rimane la sua scrittura.
Piccolissima, inclinata in modo costante, le lettere tra loro legate con continuità, ottima impaginazione spaziale: c’è tutto l’uomo in grigio, osservatore delle regole, ma chiuso, rigido: così era secondo testimonianze delle allieve quando, senza passione, insegnava linguistica e stilistica presso l’Istituto Superiore delle magistrali a Roma.
C’è anche tutta la intelligenza logica che analizza, e trae conseguenze, e vede cose che gli altri non vedono.
Una perfetta maschera.
Perfetta? E’ lui a dirci, nel saggio “L’Umorismo”: “Ciascuno si racconcia la maschera come può – la maschera esteriore… (e guai a chi ci inonda di false citazioni – senza riferimenti, ovviamente).
A ‘parlarci’ c’è, poi, il nome della firma minuscolo seguita dalla enorme “P” del cognome: il contrasto ci informa del conflitto derivato da una educazione rigida e anaffettiva e la volontà di ricercare soddisfazione nel ruolo sociale: che, chi scrive, vuole legato al proprio lavoro.
Così firmerà fino alla fine. La maschera esteriore si afferma, dunque, ma non tiene del tutto. A portare il peso della sofferenza c’è un tratto fragile, sottilissimo, ingorgato di inchiostro.
Anna Rita Guaitoli
Pirandello non amava parlare della sua persona ma lo possiamo conoscere attraverso le sue opere.
La sua fu una vita che definiremmo comune, contrassegnata da numerose sciagure che lo segnarono profondamente. Solitario, schivo, inquieto, pessimista e autoritario al quale stavano stretti i vincoli, le imposizioni e le regole comportamentali di quel tempo, nutriva un contrasto interiore generato dal vano tentativo di ribellarsi a una società priva di ideali, nella quale erano state disattese numerose aspettative.
Soprattutto grazie a Freud contempla l’uomo come un essere complesso, enigmatico e incoerente.
L’influenza della psicologia e della psicanalisi ma soprattutto le disgrazie vissute, dal disastro economico dei suoi genitori, alla pazzia della moglie, alla prima guerra mondiale, alla partenza di uno dei suoi figli come soldato e, successivamente, alla sua cattura e alla sua prigionia, fanno nascere in Pirandello l’idea di una vita contrassegnata dalla tragicità ma al tempo stesso una farsa, riuscendo bene a mascherare il dolore lacerante, tragico appunto, all’umorismo comico che, nei suoi scritti, diviene un senso di morte.
“Io penso che la vita è una molto triste buffoneria, poiché abbiamo in noi, senza poter sapere né come né perché né da chi, la necessità di ingannare di continuo noi stessi con la spontanea creazione di una realtà (una per ciascuno e non mai la stessa per tutti) la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria”
Secondo lui la realtà è dominata dal caos e lui, scherzosamente, si definiva proprio “il figlio del Caos”, non solo per la denominazione geografica della zona in cui era nato (Càvusu) ma anche perché secondo lui non esiste una realtà che sia oggettiva ma è una realtà che non si conosce e che cambia a seconda di chi la guarda. Ognuno ha, quindi, una propria visione personale fatta di convinzioni, opinioni, verità soggettive che non permettono di entrare in sintonia con gli altri e questo fa in modo che ognuno resta chiuso nel proprio mondo, facendo soltanto finta di comunicare con gli altri; questi rapporti caratterizzati da ipocrisia e falsità non fanno altro che accrescere la solitudine di ognuno. L’uomo si trova a dover accettare ruoli che obbliga la società, società che, spesso, impone di essere ciò che non si è, quindi si è costretti a indossare delle maschere e a interpretare i ruoli richiesti.
La vita appare come una trappola senza via di uscita, claustrofobica e paradossale e l’uomo non solo non conosce la propria realtà ma non conosce neppure sé stesso ed è destinato alla sconfitta in quanto non può realizzarsi.
Alla sorella comunicava: “Io scrivo e studio per dimenticare me stesso, per distrarmi dalla disperazione”. In questo pensiero si potrebbe leggere tutto il malessere di fondo che lo attanagliava in quella vita infernale attraversata tante volte dalla speranza di morire e dal pensiero del suicidio, dal quale si era salvato per non lasciare i figli soli con la madre folle e, verosimilmente, proprio grazie alla sua solitudine e alla forza della scrittura che rappresentava uno scendere negli abissi per chiedere alla morte il senso della vita stessa. Aveva scelto di cedere alla malattia della moglie e, addirittura, si era spesso rifiutato di considerarla realmente malata, negando perfino i suoi deliri e chiudendosi sempre di più ma sempre alla sorella confidava di come quella malattia, con il tempo, fosse diventata la malattia dell’intera famiglia; sia lui che i figli ne pativano le conseguenze e, probabilmente, l’episodio più eclatante fu quando la moglie, in preda a una delle sue crisi più terribili, colpì la figlia e questa, in un momento di sconforto cercò di togliersi la vita, salvatasi solo per caso. Lietta, quindi, era diventata la figlia che ha avvicinato il senso del suicidio, mentre i due maschi, erano il volto della rabbia e della malinconia, tutto il malessere vissuto dall’intera famiglia porta a vivere un rapporto tumultuoso tra Pirandello e i figli, tra conflitti e rotture.
Pirandello ha bene interpretato la crisi dell’uomo contemporaneo e con lui si continua a riflettere, a porsi domande che, il più delle volte, restano senza risposte ma semplificando molto il suo pensiero appare nitido il concetto della variabilità e arriva forte il messaggio di mettere giù la maschera essendo sé stessi, senza convenienze sociali e ipocrisia, anche a costo di apparire folli.
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